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Il tempo di lavoro: nuove questioni

di Mauro Petrassi

 

Karl Marx scriveva che il lavoro è una merce e che, come lo zucchero, si misura con la bilancia; così il lavoro si misura con l’orologio. 

Tale affermazione rivela il motivo per cui la disciplina dell’orario di lavoro ha giocato un ruolo fondamentale nella strutturazione del rapporto di lavoro subordinato.

Storicamente, la prima regolamentazione dell’orario di lavoro ha avuto ad oggetto la limitazione delle ore lavorate. In Francia, già nel 1848 l’orario di lavoro giornaliero nelle manifatture fu limitato a undici ore a Parigi e a dodici ore nella provincia; in Inghilterra gli edili e i meccanici ottennero la giornata lavorativa di nove ore sin dal 1872; in Russia le otto ore lavorative furono conquistate dagli operai nel 1917, dopo essere state al centro delle richieste rivoluzionarie. 

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In Italia, per la “conquista” delle otto ore giornaliere fu necessario attendere sino al 1923, allorquando fu introdotta con il RDL n. 692 l’organica disciplina dell’orario di lavoro.

Siffatta regolamentazione è rimasta in vigore, salvo poche modifiche, per ben più di mezzo secolo. E la durata normale dell’orario di lavoro settimanale che essa prevedeva (pari a quarantotto ore) è stata modificata soltanto con la legge n. 196 del 1997 (portandola a quaranta ore).

È stata la direttiva n. 93/104/CE sui tempi di lavoro e di riposo (e le successive direttive n. 2000/34 e n. 2003/88) a sollecitare una complessiva rivisitazione e modernizzazione della disciplina nazionale, che è avvenuta con il decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (dopo, peraltro, che la Corte di giustizia, con la sentenza del 9 marzo 2000, causa C-386/98, si era vista costretta a condannare l’Italia per l’omesso recepimento della direttiva).