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SEAC

Lo strano caso del collaboratore fisso…

di Anna Nicolussi Principe

Il caso 

Dopo aver lavorato in favore di una testata giornalistica, per sette anni, in forza di un contratto di collaborazione autonoma come pubblicista – occupandosi di cosiddetta cronaca bianca e svolgendo la propria attività per una media di quattro giorni in settimana, senza vincoli di orario – a Tizio veniva comunicata la cessazione del proprio rapporto di lavoro senza addurre alcuna giustificazione espressa. 

Ritenendo di aver svolto per tutta la durata del rapporto, a dispetto del nomen iuris del contratto, attività di lavoro in forma subordinata, Tizio decideva di impugnare in via giudiziale il recesso, qualificandolo come licenziamento, previo accertamento della natura subordinata del rapporto. 

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Il rapporto di lavoro giornalistico

Non si rinviene né nei testi normativi né nella contrattazione collettiva una definizione univoca di “attività giornalistica”. Per tale ragione la giurisprudenza ha tentato di supplire alla lacuna cercando di valorizzare una serie di elementi peculiari definendola quale attività intellettuale volta alla diffusione di idee, opinioni o notizie, caratterizzata dall’apporto creativo fornito dal giornalista. 
Nell’esercizio di tale attività è necessario che il giornalista fornisca un contributo personale consistente nell’elaborazione critica delle notizie prima di comunicarle al pubblico o tramite scritto, o in forma verbale attraverso mezzi quali la radio o la televisione o in forma visiva (essendo stata riconosciuta natura giornalistica anche all’attività svolta da fotoreporter e cineoperatori). 
La contrattazione collettiva (Contratto collettivo nazionale dei giornalisti, d’ora in poi CCNL Giornalisti) si è occupata, invece, di delineare le diverse qualifiche professionali distinguendo la figura del redattore, del redattore esperto, del redattore senior, del caposervizio, del capo-redattore, del direttore.