Siamo un popolo di migranti
di Giuliano Testi – CTS SEAC
“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri”
Don Lorenzo Milani
Per iniziare il nostro breve incontro vi invito a leggere il seguente rapporto ufficiale…
“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti”.
“Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro”.
“I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali”.
Scopri Law&HR
Abbonati
Come dite? Niente di nuovo… è uno scenario che abbiamo tutti i giorni davanti agli occhi? Allora, vi devo rivelare che – perdonatemi – vi ho ingannato… Quello che avete appena letto non è un rapporto della nostra odierna polizia o del ministero dell’interno, ma è un estratto dalla relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, presentata nell’ottobre 1912. Tra il 1861 e il 1940 il numero complessivo degli italiani che scelsero di emigrare fu di 20 milioni circa, un dato molto significativo tenendo conto che nel 1901 la penisola italiana contava 33 milioni di abitanti. A questi dobbiamo aggiungere altri 10 milioni di connazionali espatriati tra il secondo dopoguerra e la fine del ventesimo secolo. Stati Uniti, Argentina, Australia, Francia, Germania, Belgio, e chi più ne ha più ne metta.
Non esistono nazioni che non hanno conosciuto il doloroso dramma dell’emigrazione, il lasciarsi dietro la propria vita, le proprie cose, poche o tante che siano, per andare verso una nuova fase dell’esistenza, spesso incerta, molto spesso – troppo spesso – non priva di altro dolore. Molti di voi avranno visto quegli straordinari documenti filmati che mostrano gli italiani a bordo delle navi che dovevano condurli verso una nuova vita in America. Avrete visto i volti segnati dalle lacrime nel momento della partenza, così come gli occhi pieni di un misto speranza e paura al momento dell’arrivo. E dopo, la difficoltà di integrarsi, capire una lingua ignota, sopportare gli sguardi pieni di sospetto di chi non ti vuole come vicino di casa, accettare i lavori più umili, quelli che i nativi non vogliono più fare o quelli più pericolosi, finire per creare un proprio microcosmo che in qualche modo ricorda il proprio paese di origine – ieri erano le varie Little Italy, oggi sono le banlieue parigine – per trovare o conservare una propria identità.
Nessuno può negare che il problema esista, ma tutti devono prendere atto che non è possibile impedire i movimenti migratori, non lo è stato mai. Allo stesso tempo è necessario che tutti coloro che sono investiti del potere politico ad amministrativo facciano la loro parte per gestire i flussi migratori, a cominciare da quell’Europa che troppo spesso è unita sulla carta e non nei fatti. Più serietà, più organizzazione, più rispetto e – per favore – meno filo spinato. Lo dobbiamo fare – se non altro – nel ricordo di quei trenta milioni di italiani e delle loro sofferenze.